La moda riflette i tempi in cui si vive, anche se, quando i tempi sono banali, preferiamo dimenticarlo.
Così diceva Coco Chalel, in un periodo del tutto diverso dal nostro 2018.
In un momento regolato dai social più di tutti, riuscire a trovare credibilità se hai più di 45 anni risulta difficile se non impossibile.
Lo stesso direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, romano, classe 72 protagonista del successo del marchio aggiunge <<È diverso se non sei un nativo digitale: a 45 anni Instagram può farti sentire come se ne avessi 80>>.
Eppure, nonostante l'età e riuscito ad entrare tra i 100 più influenti decratati dal Time.
In un intervista al corriere della sera, alla domanda cosa è cambiato nella tua vità dopo essere stato citato dal Times? risponde
<<Mi rifiuto di accorgermi che la mia vita è diversa, ma non voglio un’altra vita. Il jet set non esiste più e io non ne avrei comunque fatto parte, ho la mia St Tropez a 180 km da Roma, a Civita di Bagnoregio. Ho la stessa casa di prima, lo stesso armadio di prima. Sono rimasto quello che va a controllare le piantine>>

Ritiene che "Influenzare"abbia importanza al giorno d'oggi?
«A essere influente non sono io, è influente, se lo è, l’estetica che porto avanti una collezione dopo l’altra. La moda da sola non è rivoluzionaria, è la bellezza a essere rivoluzionaria. E la mia idea di bellezza va contro la simmetria: ho il terrore della simmetria. Non è mai stata interessante per me che da ragazzo mi ero fatto i capelli biondi per essere diverso, e oggi la bellezza non può essere simmetrica perché il mondo è asimmetrico e non rifletterebbe il mondo se non lo fosse anche lei. In questo la moda ha delle responsabilità: per tanti anni, già da una quindicina direi, mi pare una vecchia signora elegantemente adagiata sul letto di morte. Lasciarla morire per far nascere una moda diversa mi pare una buona idea. Il mio lavoro esce da questa riflessione».
Si ritiene un collezzionista di oggetti d'epoca?
«Il mio compagno Vanni (l’urbanista della Sapienza Giovanni Attili, ndr.) all’inizio si lamentava delle scartoffie, del casino, ora si è un po’ rassegnato. È la mia ossessione, un’ossessione mai finita, che non cambierà mai. E’ cambiato il mio potere d’acquisto, questo sì (ride, ndr.). Il potere d’acquisto delle scartoffie e del casino. Però sono ossessionato dalle stesse cose. Non posso mettermi un imbuto davanti alla faccia e manipolare la mia voce».

Si ritiene responsabile?
«Sì, verso me stesso. Responsabilità verso la cosa che mi sta passando per la testa. Se nella mia testa ho l’immagine di una tenda, alla sfilata, che si apre in un teatro e mostra dei video, chi c’è deve vedere tutto come io l’ho immaginato. Non mi chiedo se quella cosa sarà capita, ma chiedo che esca in quel modo. Si può anche essere non capiti, non vuol dire avere sbagliato, anzi. Non è che sei bravo solo se ti torna indietro qualcosa. Io sono ispirato da quelli che non gli torna indietro niente. Abbiamo appena sfilato a Parigi e ho citato Leo de Berardinis e Perla Peragallo. Leo e Perla erano artisti puri, facevano teatro sperimentale».
Ritiene di aver avuto un ritorno?
«Ho un ritorno diverso ma questa urgenza la sento eccome. L’urgenza di condividere le cose che mi piacciono, che hanno un valore».
Quali sono le armi di uno stilista nel 2018?
«Un ragazzino del Missouri di 17 anni che via Instagram dice “adesso mi piace di più uscire vestito così perché tu lo fai sembrare normale”. Mi piace perché anch’io sono stato autorizzato da altra gente che amavo da piccolo — da Boy George, da David Bowie — a sembrare diverso. Se quello che faccio almeno in parte lascia libertà a un ragazzo di fare una cosa diversa sono contento. Questo lavoro non puoi farlo per i soldi, è una tortura che deve essere bella».

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